La polizia conosce i no global ma nessuno osa mai fermarli

di
Stefano Zurlo

 

Non sono quattro gatti. «Una porzione del tutto minoritaria ma non irrilevante del movimento degli indignati. Centinaia e centinaia di persone», secondo le stime di Aldo Giannuli, uno studioso dei fenomeni eversivi attento e di matrice progressista. Non possono essere sottovalutati, anzi qualcuno dovrebbe fermarli. La storia italiana troppe volte ha inseguito a scoppio ritardato chi praticava l'odio. C'è un tratto buonista, quasi un riflesso culturale, di parte della magistratura; c'è la sindrome da G8 della polizia che teme di essere accusata di chissà quali nefandezze; c'è il tabù insuperabile della denuncia civile dentro il Movimento.

Com'è come non è, c'è una girandola di nomi che gli archivi della polizia e dei carabinieri conoscono molto bene. Sono sempre gli stessi, sono sempre liberi. Il garantismo, ci mancherebbe, vale per tutti, anche per loro. Ma non si capisce come siano passati indenni da un processo all'altro, da una manifestazione violenta a una devastazione. O meglio, qualcosa si capisce se ci si ferma sulle cronache degli ultimi anni. Prendiamo gli scontri di corso Buenos Aires a Milano, l'11 marzo 2006.

Il solito pomeriggio di devastazioni. In carcere finiscono alcuni giovani, poi nei giorni successivi le accuse cadono, anzi franano: chi era stato filmato a volto coperto non viene poi riconosciuto in aula. C'è stato un errore, anzi una catena di errori nell'investigazione? Sono stati scambiati i pacifici con i violenti? Nel 2008 arrivano però i verdetti. Pesanti. Diciotto autonomi vengono condannati a 4 anni: la sinistra radicale insorge e parla di sentenze inquietanti. I Centri sociali gridano: «Vergogna, liberi tutti». Quasi li accontentano: i 18 sconteranno i 36 mesi in casa. Funziona spesso così. Davanti alle immagini di città nel caos tutti si precipitano davanti ai microfoni e usano le parole come un estintore per spegnere l'incendio. Poi però se le forze dell'ordine vanno fino in fondo, una parte della sinistra protesta e inalbera cartelli. Con le Brigate rosse - per quel che valgono i paragoni- ci fu un duplice atteggiamento ugualmente rovinoso: all'inizio l'attribuire a fascisti travestiti le prime azioni eversive; poi i terroristi diventarono i compagni che sbagliano. Oggi per fortuna non parliamo di sangue, ma indulgenze, contiguità, silenzi dovrebbero essere ugualmente spazzati via.

Il 14 dicembre dell'anno scorso Roma fu saccheggiata dal solito mix di frange anarchiche, spezzoni dei centri sociali, ragazzini surriscaldati e indignati che non sapevano ancora di chiamarsi così. Ci furono fermi e arresti, poi la solita ondata di ripensamenti e scarcerazioni. Come accade con una puntualità esasperante in quel territorio di violenza endemica che è la Val di Susa. Assuefazione e giustificazione, perché tanto il mondo è ingiusto e feroce. Così la violenza diventa un marchio di fabbrica. Anzi, qualcuno diventa un personaggio, appare e riappare sulle pagine di cronaca come i protagonisti delle saghe televisive. Rubina Affronte lancia un fumogeno acceso sul palco della Festa del Pd a Torino, bruciando il giubbotto del segretario della Cisl Raffaele Bonanni.

La denunciano, senza nemmeno il disturbo di un passaggio di cinque minuti in cella: si scopre che studia psicologia ed è figlia, nientemeno, di un magistrato. I suoi amici liquidano Bonanni con toni sprezzanti: «Un fumogeno non ha mai ucciso nessuno. Non piangiamo certo per un pezzo di stoffa». Lei torna alla militanza, alle marce no-Tav e pure sui giornali perché l'ufficiale giudiziario che va a eseguire uno sfratto nella periferia torinese trova lei barricata in casa. E Rubina diventa un titolo per la seconda volta.

 


Chiudete i centri sociali

Culle dei black bloc difese dai magistrati

di
Alessandro Sallusti

 

Non vengono da Marte. E neppure da Berlino o Londra come qualcuno vuole farci credere. I criminali che sabato hanno distrutto Roma e attentato alla vita di poliziotti e carabinieri provenivano da città italianissime, da Bari a Torino. Dietro la sigla «black bloc» si cela il teppismo nazionale che cresce e si organizza impunito, nonostante le evidenti illegalità, nei centri sociali che pullulano nelle nostre città. Disagio giovanile, lo chiamano i sociologi (altra categoria pericolosa). Ragazzi senza speranza, li difendono quelli della sinistra che siedono in Parlamento a ventimila euro al mese. Teppisti, li chiamo io, giovani annoiati e frustrati che non hanno voglia di diventare grandi, di misurarsi con i problemi della vita. Dicono: la colpa non è loro ma della società. Balle, la colpa è tutta e solo loro, non certo nostra. Se complici ci sono, vanno cercati in chi li finanzia, in chi (sindaci e magistrati buonisti) permette loro di compiere ogni tipo di illegalità. Possibile che l'obbligatorietà dell'azione amministrativa e penale valga soltanto per punire chi lascia un minuto l'auto in sosta vietata o per inseguire le ragazze ospiti di Berlusconi? Dove sono vigili e magistrati quando una banda di sfaccendati occupa case e palazzi pubblici e privati? Perché è in quelle oasi sfuggite al controllo dello Stato che i peggiori di loro organizzano i piani della guerriglia, nascondono armi improprie, preparano le molotov da lanciare per le nostre strade il sabato pomeriggio.

I centri sociali sono una minaccia, non una risorsa della società. Vanno chiusi, se serve, con la forza. Perché la Guardia di finanza e l'ispettorato del lavoro devono poter mettere sottosopra le aziende mentre un centro sociale può staretranquillo nella sua assoluta illegalità incubatrice di violenza? Non prendiamoci in giro. Solo a volerlo, le Procure possono sapere chi sono questi signori in mezza giornata. Anzi, probabilmente già lo sanno e non fanno nulla. Perché se si muovono poi si arrabbiano Vendola e Di Pietro, Bersani e Santoro. Dopo quello che si è visto ieri, sarebbe meglio farli infuriare e darsi una mossa.

Prendere le distanze dai violenti e difendere i centri sociali è una contraddizione in termini. Chi punta il dito sui criminali di ieri e celebra la memoria di Carlo Giuliani (il no global morto durante gli scontri del G8 di Genova mentre cercava di spaccare la testa a un carabiniere con un estintore) è un furbo in malafede. Carlo Giuliani era un delinquente esattamente come quelli visti all'opera a Roma. Dedicargli, come fece Rifondazione comunista, un'aula di Montecitorio (presidente della Camera era Bertinotti) è stato un insulto all'Italia intera. La poesia che a Giuliani ha dedicato Nichi Vendola, possibile candidato premier della sinistra moderata, è stato un invito a tanti giovani a seguirne l'esempio, a spaccare la testa armati di estintore. Contro i cattivi maestri non possiamo fare nulla, chiudere i centri sociali è un diritto- dovere di chi amministra le città e la giustizia. Non bisogna avere paura.Non l'ha avuta Obama,presidente nero e democratico degli Stati Uniti, ad arrestare oltre mille «indignati» turbolenti. Anzi, l'America tutta l'ha solo ringraziato. Proviamoci anche da queste parti.

 


Altro che indignati SONO CRIMINALI

di
Vittorio Feltri

 

Madrid, New York, Roma. Arriviamo sempre ultimi ma arriviamo. E prima di andarcene passano vent'anni o quaranta. Nella moda tout court siamo i numeri uno, ma nella moda culturale (si fa per dire) facciamo pena, tardiamo ad adottarla e anche a dismetterla. Il Sessantotto ci colse impreparati. Poi però ci attrezzammo, e non abbiamo ancora smesso di cavalcarlo. Adesso ci siamo innamorati degli indignados e chissà quando ce ne sbarazzeremo. Tutte le generazioni vogliono cambiare il mondo perché si illudono di averlo capito; in realtà, non capiscono nulla, tant'è vero che non riescono a cambiare nemmeno se stesse.

Quello dei giovani è sempre stato un falso problema che si risolve lasciandoli invecchiare. Lentamente, col trascorrere degli anni, la presunzione cede il posto non alla saggezza, che non è di questo mondo rimbambito, ma al cinismo. Prediche inutili. Ieri la capitale, che ne ha subite di tutti i colori e ha fatto della pazienza la sua unica arma di difesa, è stata costretta a sopportare un altro corteo (con annesso conflitto bestiale), quello degli indignati, appunto.Nulla di nuovo sotto il sole dell'ottobrata romana: migliaia di giovani e di ex giovani, incapaci di rassegnarsi alla legge dell'artrite e dell'aterosclerosi, hanno riproposto il solito spettacolo brutale, i soliti slogan frusti, le solite scene agghiaccianti. Una manifestazione con la muffa, un replay senza inventiva, all'insegna della mancanza di idee e della profusione di violenze.

Il pretesto della marcia è stato offerto a buon mercato dalla politica marginale che rumina da mesi luoghi comuni logori: meno banche e più scuole, fottiamocene del debito pubblico, non paghiamolo e che sia finita; massì, uccidiamo anche i padroni, case gratis per tutti, basta società per azioni e più assistenza sociale. Dimenticavo: Berlusconi ha rotto i coglioni, che fa anche rima. Gli indignados de noantri con uno sforzo di fantasia si sono perfino ribattezzati «draghi ribelli». Che siano ribelli non v'è dubbio: hanno spaccato tutto. A chi e a che cosa si ribellino è invece un mistero. Per urlare urlano, e infatti hanno urlato.

Di sicuro sono incazzati: forse perché sono nati e, come tutti gli esseri umani, hanno scoperto l'infelicità esistenziale. Sta di fatto che menano di brutto. Pretendono di campare meglio? Questa è un'aspirazione che accomuna tutti i viventi. Ma gli indignados vorrebbero che fosse lo Stato a provvedere alle loro esigenze. Delinquenti e allocchi. Ignorano che la politica al massimo può gestire i servizi, bene o male; può forse ridistribuire la ricchezza, ma non crearla. A ciò devono pensare i cittadini, maturi o giovani che siano. Come? Lavorando, benedetti ragazzi senz'arte né parte! Producendo, inventando, dandosi da fare.

Altro che intrupparsi nel gregge dei draghi acefali e picchiatori e andare in giro per la città eterna sfogando i più bassi istinti distruttivi, incendiando automobili, fracassando le vetrinedei negozi e perfino irrompendo in un supermercato per imitare i padri che si resero famosi con gli espropri proletari, salvo poi ambire all'iscrizione al Rotary e a un posto in Rai, da dove, ben remunerati, sfottere e insultare il governo. Già. Ragazzi, fateci caso. Nella professione emerge soltanto chi si impegna, chi si attrezza, chi si specializza, chi studia seriamente e seriamente affronta il primo, il secondo e il terzo impiego.

Chi, invece, suppone che lo stipendio sia un diritto come la pensione, resterà sempre, se gli va di lusso, un mantenuto, un profittatore, un parassita. E sfogherà le proprie frustrazioni dando fuoco ai cassonetti dell'immondizia, sventolando bandiere rosse, lanciando bombe, prendendo a bastonate chiunque abbia in tasca qualcosa in più del salario medio. Siamo noi, cari ribelli, a indignarci nel vedervi attivi soltanto quando si tratta di fare la guerriglia e apatici e rinunciatari quando si tratta di lavorare. Vi conosciamo. Abbiamo notato da tempo quanto siete inetti. A Milano vi siete segnalati per alcune operazioni da galera: rovesciare vernice, scrivere idiozie su muri privati, fomentare disordini. Ieri a Roma vi siete rivelati completamente: criminali.

D'accordo,vi piace sfasciare tutto ciò che è a portata di mano? Risarcite i danni, imparate a essere civili prima d'insegnare ad altri ciò che voi stessi non sapete. Certamente, siete fortunati. Perché nessuno vi torce un capello, quando invece meritereste di assaggiare il manganello e la sbobba della prigione. Ringraziate l'Italia anziché tentare di ribaltarla: qui siete protetti,coccolati,polizia e carabinieri hanno ricevuto l'ordine dall'alto di non intralciare le vostre bravate, le razzie, gli assalti sanguinari; la magistratura vi tollera e vi riserva mille riguardi, mai una condanna, un buffetto e via, così potete rientrare sereni nell'attico di papà e farvi rimboccare le coperte da mammà, senza mai pagare dazio.

Ringraziate il ministro dell'Interno, Roberto Maroni, che non vi ha preso a calci in bocca perché lui stesso temeva e teme di prenderne dall'opposizione che vi strumentalizza, appoggia e incita. E non venite a raccontarci che non siete responsabili dei disastri, che è tutta colpa degli infiltrati provocatori. I provocatori siete voi. E anche farabutti.

 


Chi mitizza Giuliani sta con i black bloc

di
Mario Cervi

Roma 2011

 

G8 - Genova 2001 - Carlo Giuliani

 

Lo schema della sinistra, nell'affrontare la questione degli indignati e della guerriglia di Roma, si fonda su tre punti. Il primo è che la colpa dell'accaduto ricade per intero sul governo, incapace di prevenire i disordini. Il secondo è che i disordini stessi vanno attribuiti esclusivamente a qualche centinaio di black-bloc: infiltratisi in una mite manifestazione di persone ansiose soltanto di denunciare le ingiustizie del mondo capitalistico e la sofferenza dei giovani. Il terzo è che la sinistra, nel giudicare l'accaduto, sta tutta dalla parte di chi manifestava con ragionevole compostezza, e deplora risolutamente i facinorosi che profittano d'ogni occasione per dare sfogo ai loro istinti belluini.

Tranne che per le accuse al governo prevedibili e direi stancamente rituali - il ragionamento è accettabile. Purché sia sincero. Per dubitare della sua sincerità basta rifarsi alla fotografia che il Giornale ha pubblicato ieri in prima pagina, come simbolo della furia vandalica con cui le forze dell'ordine si sono dovute confrontare. Era la fotografia d'un ossesso che, a volto mascherato e a torace nudo, scagliava un estintore contro la polizia. Come Carlo Giuliani. Il ragazzo invasato della fotografia non ha avuto per buona fortuna la sorte del povero Giuliani, colpito a morte da un carabiniere che, aggredito nella sua camionetta e terrorizzato, ha fatto fuoco. Altri carabinieri si sono trovati ieri in analoga situazione, e non hanno reagito. Bravi. Ma se per caso uno di loro, preso dal panico, avesse sparato, quale sarebbe stato l'atteggiamento dei progressisti che ora si affannano a bollare come teppistiche ed eversive le male azioni della gentaglia assatanata? Se ci fosse scappato, com'era possibilissimo, un altro morto, avrebbero riconosciuto che all'origine della tragedia c'era la delirante smania di distruzione dei manifestanti?

Proprio il caso di Carlo Giuliani mi fa supporre che le cose sarebbero andate in tutt'altro modo, e che dalle file della sinistra si sarebbero levati pianti disperati per la vittima e accuse alla «sbirraglia crudele». Sia chiaro che queste mie considerazioni prendono spunto dalla fine dolorosa d'un giovane, e per quella fine hanno il dovuto rispetto. Ma è innegabile che Carlo Giuliani aveva la mentalità, le pulsioni e le intenzioni di quegli stessi che hanno messo a fuoco e fiamme il centro della capitale. Genova come Roma. Devastate dall'imperversare dei black-bloc. Carlo Giuliani era uno di loro. Sarebbero state comprensibili le critiche all'arruolamento di quel carabiniere- palesemente incapace di reggere un'emergenza che ha colpito.
Ma abbiamo assistito a molto di più, e di molto diverso. Ossia alla santificazione e alla celebrazione di Carlo Giuliani, indicato come modello di vita e di pensiero alle giovani generazioni, abbiamo assistito all'ingresso in politica dei genitori strumentalizzati per fini di propaganda, abbiamo assistito a cerimonie commemorative con discorsi ispirati di esponenti della sinistra. Magari di quegli stessi che adesso si pronunciano con veemenza contro i black- bloc di Roma. Il ragazzo sbandato che era in tutto e per tutto uguale ai più scalmanati protagonisti della giornata romana è diventato un modello virtuoso. Di lui Giuliano Pisapia ha detto: «Era un ragazzo che sognava un futuro migliore per il nostro Paese e per il mondo».

Sognava alla maniera degli energumeni dai quali si sono dovute difendere le forze dell'ordine. Se quel modo di sognare piaceva alla sinistra, forse dovrebbero piacerle anche i vandali romani. La sinistra è oggi indignata, anche lei, per lo scorrazzare di violenti, ma prima per dieci anni ha celebrato la memoria d'un violento che sventuratamente ha pagato la sua violenza con la vita.


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