Buongiorno del 20 settembre 2003

La teiera e il fiore
(Don Ezio Del Favero)

C'era una volta una teiera molto superba. Andava orgo­gliosa soprattutto della sua porcellana, del suo manico e del suo beccuccio ricurvo. Di questi parlava in continua­zione, mentre era più riservata a proposito del suo coperchio, che una volta si era rotto in tre pezzi ed era stato aggiu­stato con la colla. Questo era il suo difetto, e dei difetti, si sa, non si parla mai volentieri, anche perché ci pensano sempre gli altri.

Anche in questo caso, gli altri pezzi del ser­vizio da tè preferivano chiacchierare delle debolezze della teiera, piuttosto che ricordarne i pregi. Per loro contava di più quel coperchietto rotto che non il manico saldo e il grazioso beccuccio, e questo la teiera lo sapeva benissimo e sospirava: «Difetti ne abbiamo tutti, così come tutti abbiamo qualche pregio, ma io, parola d'onore, possiedo molti più pregi che difetti. E vero, è capitata quella disgrazia al mio coperchio, ma io ho un beccuccio e questo le tazze e la lattiera non lo avranno mai. E’ questo che mi rende la regina della tavola da tè. Sì è vero, ogni pezzo del servizio è utile, ma chi è che decide? Nel mio interno le fo­glioline cinesi sprigionano il loro delizioso aroma nell'acqua bollente, e danno un infuso squisito». Così si consolava.

Passarono gli anni. Un giorno la teiera fu sol­levata dalla mano di un bimbo. Una manina de­licata e... un po' maldestra... tanto che lei ruzzolò sul pavimento e andò in frantumi. Il beccuccio si staccò e andò a rimbalzare sotto una sedia e anche il manico si ruppe, per non parlare del coperchio che, già malridotto era, andò in mille pezzi. Che dolore per la teiera: giaceva a terra distrutta, mentre l'acqua bollente scorreva tutt’intorno. Le era stato inferto un duro colpo e il peggio era che le tazzine, i piattini, la lattiera ridevano di lei, anziché ridere della manina maldestra.

Anni dopo la malridotta teiera, ricordando quel doloroso avvenimento, raccontava: «Quella volta dissero che ero mutilata, che oramai non servivo più a nulla, e mi cacciarono in un angolo. Il giorno dopo, la cameriera mi vide e mi regalò ad una povera donna. Io che ero abituata ad ogni lusso, piombai di colpo nella miseria. Ma proprio allora per me incominciò una vita migliore.

Mi riempirono di terra, e questo, sapete, per una teiera è come una sepoltura, ma nella terra piantarono un bulbo. Il bulbo stava dentro di me, diventò il mio cuore, un cuore vivo. Prima, nella mia esistenza dorata, non ne avevo mai avuto uno. Passavano i giorni e il bulbo germogliava, abbondava di pensieri e di buoni sentimenti, che un giorno sbocciarono in un fiore stupendo. Io lo avevo visto crescere, lo avevo portato in me, e così avevo dimenticato me stessa in virtù della sua grazia e della sua bellezza.

Il fiore, forse, non si accorse neanche della mia esistenza. Era ammirato e lodato ed era felice; e io mi rallegravo per lui. Un giorno sentii dire che quel fiore meritava ben altro vaso che un rudere di teiera. Mi gettarono nel cortile e lì giaccio ancora, come un vecchio coccio: ma il ricordo non lo perderò mai!».

***

Nessuno può considerarsi o essere considerato inutile.
Soprattutto quando dimentica se stesso per gli altri e contribuisce a dare felicità.



Tratto dal "Buongiorno...nel Signore" di Eugenio Marrone
Lodovisca

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